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Altre Reliquie
dal 18 Maggio al 23 Giugno 2024
Complesso di San Paolo di Modena

 

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Come possiamo essere immensa bellezza e allo stesso tempo enorme bruttezza e orrore, cos’è che ci corrompe giorno dopo giorno? E dove andremo a finire? E ancora, cosa ci lega al resto del creato, cosa rimane della nostra primordiale bellezza? Cosa rimane?

Questo è il concetto sul quale sto lavorando in quest’ultimo periodo e sul quale sto concentrando il mio ultimo ciclo di opere. Una ricerca che ho iniziato già qualche anno fa nel ciclo legato alla Grande Madre, che andava proprio a indagare il nostro cammino, la nostra sete di conoscenza, la nostra presunzione, sconfitta dalla nostra piccolezza davanti all’immensità della vita stessa, e della morte.

Cosa rimane di un’umanità che vedo sempre più distante dai valori nei quali ho sempre creduto e cosa resta di un mondo violentato dal nostro misero vergognoso ego?

Una prima possibile risposta nell’opera “Namastè”, una delle prime realizzate per questo ciclo, dove un uomo (un piccolo insignificante omino) davanti all’immensità della Natura riconosce in lei qualcosa.  Namastè è il saluto buddista. Il suo significato è un saluto di condivisione: riconosco il divino che è in te… quello stesso primordiale succo che scorre in ognuno di noi e che ci accomuna all’unica cosa non incorrotta di noi che possediamo.. la nostra Natura. La nostra appartenenza a quel tutto che è l’unica cosa in grado di innalzarci dalla nostra piccolezza e miseria del singolo egoico. Quella stessa immensità, che è la polvere di stelle che ci compone, la ritroviamo nella “madre terra” e nelle “nuvole”, così come in un soffio di vento e nel mare infuocato dalle sue correnti.

In migliaia di anni di esistenza dell’umanità, che sono un niente davanti al divino di cui parlo (che spero sia chiaro che si tratti di un divino laico, che non ha nulla a che fare con le singole religioni ma con qualcosa di molto ma molto più grande rispetto alle peculiarità culturali dei singoli popoli) l’uomo è riuscito a dimenticare così profondamente questa sua appartenenza al tutto da smettere quasi di rendersi conto che le brutali violenze inflitte all’ambiente che lo circonda e che lo mantiene in vita, la corsa sfrenata al progresso, il consumismo, la sete di potere, il desiderio malato di avere e possedere sempre e sempre di più non hanno fatto altro che impoverirlo.. Maltrattare, violentare, azzerare, brutalizzare tutto ciò che tocca per trasformarlo in profitto. Nutrirsi, mangiare voracemente cibo, oggetti, telefoni, computer, persone, bottiglie, vestiti, acquisti veloci a due lire, fagocitare qualsiasi cosa, consumare poi defecare..e nel mondo immondizia e resti e reliquie di un’umanità che ha divorato ogni cosa, che si è dimenticata che stava divorando il proprio stesso habitat e soprattutto se stessa..stava perdendo la sua appartenenza al cosmo ridotto ad essere uno dei tanti prodotti di consumo. Solo in qualche piccolo profondo istante al singolo, come un piacevole bellissimo schiaffo, arriva la sofffiata.. ti si spalancano gli occhi  e penetra attraverso i tuoi bulbi oculari potente come una freccia che ti scalfisce cervello e anima una luce, una presa di coscienza temporanea…ma quel mare che sto guardando, quelle montagne, quella foresta quel filo d’erba quel fiore questo profumo di vento..ma sono io..io sono immenso.

Nell’opera “Prega per noi” un piccolo semplice esempio della incoerenza e cecità dell’uomo.

Un camion trasporta tante povere anime dannate e condannate dalla nostra ingordigia. Trasporto animali vivi, davvero un modo di merda per fare un ultimo viaggio prima della morte. Sulle portiere del camion una decorazione: una tamarrissima faccia di un Gesù splendente, simbolo della nostra fede e carità cristiana. Noi siamo così. Dei fedeli carnefici. Ci pavoneggiamo della nostra spiritualità e rettitudine  e poi consumiamo divoriamo annientiamo, impassibili e imperturbabili davanti all’orrore di tante bestie innocenti che sfrecciano accanto a noi sull’autostrada, purtroppo temo consapevoli di quel che gli accadrà poiché l’hanno già visto accadere agli altri. E lo sguardo di Gesù si fa bovino, complice di quelle povere bestie che forse sono davvero l’ultimo sprazzo di umanità rimasta ma noi non siamo in grado di vederlo. Noi siamo fatti di quella stessa sostanza eppure noi guidiamo il camion, accendiamo i fuochi nelle fornaci, premiamo i grilletti, disboschiamo, rendiamo arida la terra.

Arida come la terrà sotto la madonna postatomica disperata davanti all’eden seccato dall’uomo. (“Aridità”). Bruciati dal sole come in “sublime fornace” , minuscoli davanti alla natura selvaggia che abita i nostri resti.

Reliquie ce ne sono tante, memori di un tempo passato  e di una vita che fu. Alcune lievi e delicate ti cullano nel ricordo di ciò che non c’è più, dopo lo strappo estremo. Come In “verde speranza” e come “attaccarsi a un sedano al tramonto”. O come “fragile” dove persino l’effigie del figlio di Dio ha bisogno di protezioni, di cuscini per attutire i colpi inferti dalla nostra incapacità di imparare dai nostri errori. Capaci di ripetere sempre e per sempre, in forme fantasiosamente diverse, le stesse bruttezze, le stesse carneficine. Noi con quelle stesse mani con le quali siamo in grado di creare le cose più belle e portatrici di significato.

Anche “stile antico” reca in sé la memoria delle cose grandi e magnifiche che siamo stati in grado di fare, dell’arte che in un qualche modo è in grado di preservare se non altro il ricordo della nostra appartenenza all’immensità del creato, nonostante essa stessa se ne nutra, come tutto ciò che è prodotto dell’uomo. Noi immensi e abili creatori di bellezza, noi maestri  dell’imitazione , noi capaci di falsificare le forme i colori i profumi la grandezza che abbiamo appreso dalla Natura, noi siamo pur sempre effimeri. E caduchi. E alla fine a lei ritorniamo e da essa veniamo nuovamente inghiottiti (“Narciso” e “la natura si riprende la sua maternità”). Alla fine la Natura si riprende la sua maternità. Noi abbiamo costruito la grandeur..noi realizziamo opere d’arte.. e lei alla fine , violata inviolata alle volte non si sa contenere perché non sa più dove andare e da qualche parte deve pure sfociare tutta la sua vastità. Eruzioni, inondazioni, frane, terremoti, tornadi, singulti e singhiozzi di una terra che sta perdendo i suoi spazi e che deve cercare di stare tutta rattrappita su se stessa attorcigliata e scomposta su una sedia diventata troppo piccola.

Die Erde (la terra). Un reliquiario vuoto. Ciò che rimane di lei. non devo aggiungere altro credo.

Ho realizzato anche un’opera site specific per la mostra. “Pittore le voglio parlare mentre dipinge un altare” anche qui memore di qualcosa e qualcuno che non c’è più.

Questo luogo era una chiesa un tempo. Ha vissuto un’altra vita e le sue forme ne tradiscono la sua iniziale natura. Entrando vediamo ancora la nicchia vuota dove un tempo viveva l’altare.

Ho voluto riproporre la sua carcassa.  Lo scheletrino di quel che doveva essere stato un tempo. Ma ho fatto finta che non sia stato spostato da lì..che accanto a lui  e con lui l’umanità sia passata, i tempi trascorsi, le vite si siano susseguite. E insieme le speranze, le conquiste e le sconfitte. Tanti diversi livelli di umanità hanno abitato questo altare. Insieme alla messa e alle omelie la musica è risuonata e le luci del cabaret si sono accese, giovani ragazzi si sono baciati e hanno parlato dei loro sogni e si sono picchiati e si sono fatti la guerra e hanno lottato per i loro ideali. E si sono anche fatti fagocitare dal sistema. Ci sono tanti piccoli indizi nascosti nel quadro: tanti piccoli mondi uno dentro l’altro come se questa santa chiesa fosse stato il luogo di tante sante vite, tante sante rinascite, tante sante evoluzioni e involuzioni, il cammino di un’umanità che scorre.

Fra i muri , dai muri si affaccia sempre una costante però. Le pareti si sgretolano, tutto scorre e cambia e si decompone..ma qualcosa rinasce ed è sempre quel succo..quelle foglioline fatte della stessa linfa che scorre in noi. La Natura, la nostra natura, con la sua leggerezza e la sua forza dirompente.  E un giglio che non proietta ombra poiché non esiste. Lui c’è e non c’è. E’ la sostanza più sostanziosa ma anche la più effimera. E’ quel Namastè che passa  e vive nonostante il fluire. E’ il fluire. Siamo. Uno.

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